Sette giorni di merda o quasi…
di 2bePOP - 10 marzo 2013
Non c’entra nulla. Qui stanno tutti ancora a dare le colpe all’età. Ma davvero una classe dirigenziale giovane può risolvere i problemi? Sto diventando grande, lo sai che non mi va, cantavano i Righeira, ma l’estate non arriverà mai e siamo in un lungo inverno. Lunedì faceva freddo e suonavano i Girls Names. Ci saranno state una sessantina di persone. Roma pare essere diventata deserta ultimamente. Del resto, non è stato un gran concerto. La solita filiazione irlandese, quindi provinciale, nata dai Joy Division e feedback di chitarra. Ok, ma se la band fosse stata italiana e avesse riecheggiato i Pooh sarebbe stata già una conquista.
L’esterofilia è il male locale del secolo, ed anche di quello precedente. Ma il patriottismo e il campanilismo sono virus letali. Perché? Dunque, in virtù di un’iniziativa benefica, intitolata “Last Night A DJ Saved My Life Foundation”, Fatboy Slim ha suonato il suo dj-set sul terrazzo del Parlamento, o meglio sul terrazzo del bar del Parlamento inglese, precisamente alla House of Commons, al Palazzo di Westminster. Cioè, i britannici hanno una Camera ereditaria e comunque progrediscono culturalmente.
In Italia i politici sono ancora fossilizzati su Celentano (forse perché lui è ancora fossilizzato sulla politica, vista la sua ultima hit elettorale), l’unico vezzo potrebbe essere Apicella, ovvero un musicista a forma di bidè, ma di tutt’altro gabinetto. In più Stephen Mosley, parlamentare conservatore, ha diffuso su Twitter una foto di Fatboy ai piatti, come se il governante fosse una di quelle fighette tutte 2.0 e calze arrapanti. Ok, che anche il dimissionario Pastore tedesco era capace di cinguettare, ma qui, comunque, pare che la Rete sia stata creata dal demonio e data in mano a Grillo.
E poi c’è dell’altro. Mentre Marco Mengoni spopola al nostro Sanremo, i vertici della Sony, lì in U.K., cambiano rotta. Hanno compreso ciò che sta mandando in rovina la discografia mondiale? Non ne parlano così, ma i nuovi provvedimenti hanno un retrogusto di ammissione di colpa. A parlare è Nick Gatfield, presidente della filiale britannica del colosso discografico. La sua label ha diritto di prelazione sui cantanti partecipanti a X-Factor, privilegio valido anche per l’Italia. Ebbene, il manager promette un cambio di rotta degli investimenti. “Qualsiasi nostro competitor vorrebbe poter sfruttare una piattaforma come quella offerta da X Factor”, ha dichiarato Gatfield alla testata Business Voice, mettendo le mani avanti, però poi ammette: “Abbiamo un incredibile flusso di talenti che ci arriva dai reality musicali e siamo fortunati ad averli. Siamo però diventati troppo dipendenti da questo canale, discograficamente parlando. Ci siamo compiaciuti di questa situazione, che, però, ci ha cavato gli occhi dalle orbite”. Morale della favola: torneranno a seguire i live in posti piccoli, con cessi puzzolenti, per scovare i talenti di domani.
Ho fatto lo stesso, in questi giorni. Una sera, sul medesimo palco, suonavano Rosko degli Space Man 3 e un terzetto italiano: i Neo. Allora, lui, chitarra e voce, dava smalto all’immortale anima del rock’n’roll sudicio e grandioso, una bomba insomma, ma di quelle tanto normali da essere straordinarie, almeno in un’era così bizzarra. Loro, dopo le lezioni dei conservatori e di Zappa, hanno sviluppato una tecnica mostruosa, un manierismo che li risolve in primi della classe rimasti espulsi dalla scuola; insomma, un po’ come il rapito che si innamora del proprio carceriere, restano ancorati ai professori che li hanno bocciati. Ed è la stessa cosa per la nostra classe dirigente e di chi gli si oppone, una vittimismo da super-io freudiano che ricorda molto il PD e l’impossibilità di chiamarsi Sinistra in presenza dei Cattolici, nell’impero di quel centro cristiano che solo Berlusconi a cazzo dritto ha mai ignorato, nella storia della repubblica.
Di contorno ci sono gli eletti del M5S che si presentano in filmati che somigliano a quelli della trasmissione The Club. Ed è allora che comprendo che crescere non è poi così male. Rido e sto male, in uno stato depressivo che mi sta cancellando le speranze, lasciandomi precario pur in mezzo a, sofferte, statuizioni, dopo una vita di dubbi. L’ennesimo paradosso di noi giovani che non saremo mai adulti, almeno contrattualmente. Una generazione che non esiste. Le risposte continuo a cercarle sottopalco. Ed è sotto quello degli Uzeda che comprendo di come la giovinezza non c’entri un cazzo con i dati anagrafici. Loro sono una potenza. Freschi e appesantiti, virtuosi e punk, ragazzi sulla cinquantina, tanto che i paradossi non mi pesano più e, anzi, li vedo come una forza. Dunque non ho voglia di dormire. Forse c’è un domani.
Non posso chiudere gli occhi. Devo guardare il mondo un altro po’, almeno oggi che è così meraviglioso. Così, facendomi beffa dei miei postulati sulla borghesia, faccio ingresso in posto fighettissimo: il Goa. Suonano i Coblestone Jazz ed anche i tamarri con la puzza sotto il naso sembrano neutralizzati. Sembra quasi la presa della Bastiglia. Qualcosa sta cambiando allora. L’età, i cliché, sono solo stereotipi che possono svanire. E magari anche questo precariato che manda in crisi (e non viceversa) prima o poi si leverà dalle palle. Magari è così. Magari il futuro esiste. Io, per un po’, l’ho visto, e non ho la congiuntivite. Ma anche se l’avessi nessuno mi manderebbe una visita fiscale. Sono libero, incensurato e inoccupato.
Stefano Cuzzocrea